Inquadramento normativo
La disciplina del cambio delle mansioni assegnate al lavoratore ha subito una significativa evoluzione con l’entrata in vigore del d.lgs. N. 81 del 2015 (jobs act), che ha modificato l’art. 2103 del codice civile, norma che regolamenta il mutamento delle mansioni lavorative.
Nello specifico, è stato sostituito il criterio dell’equivalenza delle mansioni con quello della riconducibilità allo stesso livello e categoria legale di inquadramento, ampliando i margini del c.d. Jus variandi, ossia il potere del datore di modificare unilateralmente le mansioni di un dipendente all’interno del rapporto di lavoro.
Quali sono le modalità di esercizio del potere di variazione delle mansioni?
Diverse sono le modalità con cui il datore di lavoro può esercitare lo jus variandi:
1) Mutamento orizzontale
Il datore può assegnare unilateralmente il lavoratore a qualsiasi mansione rientrante nello stesso livello e nella stessa categoria delle mansioni originarie, senza necessità di accordo preventivo e mantenendo invariata la retribuzione. La normativa stabilisce un principio di fungibilità delle mansioni riconducibili allo stesso livello contrattuale.
2) Demansionamento unilaterale
Il demansionamento unilaterale del lavoratore, ossia l’assegnazione del lavoratore a mansioni di livello inferiore, purché rientranti nella medesima categoria, è consentito solo in casi specifici previsti dalla legge, ovvero nel caso di riorganizzazione aziendale, di accordo sindacale o di accordo individuale concluso con il lavoratore e nell’esclusivo interesse di quest’ultimo.
Sul punto la giurisprudenza ha precisato che tale modifica deve avere una comprensibile ratio e deve, soprattutto, avere carattere generale e non discriminatorio o strumentale (cfr. Tribunale salerno, sez. Lavoro, sentenza n. 810/2025).
Per operare il demansionamento unilaterale rimane obbligatoria la comunicazione scritta a pena di nullità e la conservazione del trattamento retributivo.
3) Accordo di dequalificazione
Nelle sedi protette (ispettorato territoriale del lavoro, sede giudiziale, sede sindacale ecc.), ai sensi dell’art. 2113 del codice civile, è possibile stipulare accordi individuali per modificare mansioni, categoria e retribuzione nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di diversa professionalità o al miglioramento delle sue condizioni di vita.
Si ritiene importante precisare che ogni mutamento di mansioni deve essere accompagnato da una adeguata formazione, il cui mancato adempimento, pur non comportando nullità dell’assegnazione, legittima il rifiuto della prestazione da parte del lavoratore ai sensi dell’art. 1460 del codice civile (“eccezione d’inadempimento”), lo esonera da responsabilità per eventuali danni provocati nello svolgimento delle attività e può fondare richieste di adempimento e di risarcimento.
Quale risarcimento a fronte di un demansionamento illegittimo?
Si parla di demansionamento illegittimo quando il datore assegna al lavoratore mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali è stato assunto, o che ha successivamente acquisito, senza che ciò sia consentito dalla legge o giustificato da validi motivi.
Il demansionamento illegittimo genera il diritto al risarcimento a favore del lavoratore che lo ha ingiustamente subito. Di recente la giurisprudenza ha chiarito che grava sul datore l’onere di provare l’esatto adempimento dell’obbligo previsto ai sensi dell’art. 2103 del codice civile, mentre il lavoratore deve allegare le circostanze dell’inadempimento e provare il danno con il relativo nesso causale (cfr. Cassazione civile, sez. Lavoro, ordinanza n. 15821/2025).
I danni risarcibili comprendono:
- Danni patrimoniali: impoverimento della capacità professionale del lavoratore e perdita di chance;
- Danni biologici: peggioramento della salute psico-fisica del lavoratore;
- Danni non patrimoniali: violazione di diritti costituzionalmente garantiti.
La liquidazione di tali danni può anche avvenire in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 del codice civile, proporzionalmente alla retribuzione percepita dal lavoratore.
Da ultimo, è importante evidenziare che il demansionamento può altresì configurare una violazione dell’art. 2087 del codice civile, norma che impone al datore di tutelare la salute psico-fisica del lavoratore. Qualora la dequalificazione non sia un episodio isolato, ma si inserisca in un contesto più ampio di condotte reiterate e vessatorie (quali, a titolo esemplificativo, isolamento, svuotamento delle mansioni, esclusione dalle informazioni o dagli aggiornamenti, sistematica attribuzione di compiti umilianti), si può integrare una fattispecie di mobbing. In tal caso, la responsabilità datoriale si estende oltre il piano contrattuale, coinvolgendo anche la tutela risarcitoria per danni biologici, morali ed esistenziali.
Di recente la giurisprudenza di legittimità ha ribadito che il mobbing richiede la prova di un disegno persecutorio unitario, volto a ledere la dignità professionale e personale del lavoratore, con conseguente condanna al risarcimento integrale dei danni subiti (cfr. Cassazione sentenza n. 1095/2024).
Conclusioni
In conclusione, si può affermare che il legislatore ha inteso bilanciare le esigenze di flessibilità organizzativa aziendale con la tutela della professionalità del lavoratore, introducendo un sistema di garanzie procedurali e sostanziali. La giurisprudenza ha delineato i limiti applicativi della disciplina, confermando che ogni esercizio dello jus variandi da parte del datore deve essere sorretto da effettive ragioni di riorganizzazione aziendale e rispettare rigorosamente le procedure previste, pena la nullità dell’atto e l’obbligo risarcitorio a favore del lavoratore.